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SALLUSTIO, MARIO E CATONE MAGGIORE


"Non sunt composita verba mea: parvi id facio. Ipsa se virtus satis ostendit; illis artificio opus est ut turpia facta oratione tegant. Neque litteras grecas didici: parum placebat eas discere, quippe quae ad virturem doctoribus nihil profuerant". 

Sallustio, in questo suo Mario del Bellum Iughurtinum, mostra al meglio un atteggiamento, un tono o, per i malevoli ("Priscorum verborum Catonis ineruditissimus fur" lo chiamò un liberto di Pompeo, certo Leneo che Svetonio nel De Grammaticis dice offeso nel suo patrono) una posa in cui è difficile credere che egli stesso non si riconoscesse o, almeno, ammirasse con superbo rimpianto. Stile, quello del Mario sallustiano, che è poi quasi sintesi e concentrato di quello del suo autore, che è brusco eppure elevato, fiero ma mai tumido, aristocratico e mai molle. 
Chi parla -e scrive- così siamo tentati di vederlo col mento alzato, lo sguardo cupo che non sapremmo se dire più torvo o triste, e la bocca leggermente contratta in una smorfia di stanco orgoglio: "scriptor seriae ac severae orationis" lo dice giustamente Varrone, e di "timbro maschio e severo" parla Paratore, dacché proprio la severità è l'elemento che in lui risalta maggiormente e in modo più memorabile. Non a caso Norden, nel suo grandioso "La prosa d'arte antica", enuclea in Tucidide, Tacito e, appunto, Sallustio la 'triade dei σεμνοι', "scrittori per i quali il pensiero, che mediante la variazione delle espressioni viene sempre un po' sfumato, importa più delle belle parole". Almeno per Sallustio, è in effetti chiaro un certo disprezzo per ogni morbidezza, per ogni adagio troppo allentato ma, anche, per ogni brillantezza e arguzia troppo ricercate. 
È probabile che, nonostante in comune avessero un certo "abruptum sermonis genus"- come lo descrive polemicamente Quintiliano-, Sallustio non avrebbe apprezzato Seneca, troppo compiaciuto della sua portentosa verve e decisamente "ingenium suum iactans", per dirla con Tacito, sicuramente più vicino al nostro ancorché diverso da lui per più di un non secondario aspetto. Il modello primario di Sallustio, difatti, è lontanissimo da entrambi i caratteri di questi due campioni della latinità argentea, "anime barocche" secondo Marchesi, ravvisandosi appunto nell'austero, duro e ruvido Catone il Censore, grande oratore oltre che polemico storiografo e, ovviamente, integerrimo politico. Curioso poi che un homo novus come Sallustio, forte dell'esempio di Catone e Mario, si sia tanto legato in seguito a Cesare, finissimo aristocratico il cui carattere spregiudicatamente affascinante e intelligente si riflette al meglio nella sua prosa, che è quanto di più chiaro e asciutto si possa immaginare; anche se già Norden faceva notare, oltre a ciò, anche la grande distanza che separava stilisticamente- e quindi umanamente se, con Buffon, crediamo che "le style est l'homme meme"- questi autori. Ma su ciò avremo modo di tornare, perché ora converrà forse dare qualche esempio concreto di stile sallustiano, evidenziandone alcune macroscopiche caratteristiche e procedendo ad un piccolo confronto con gli stilemi catoniani. 

"Chi parla -e scrive- così siamo tentati di vederlo col mento alzato, lo sguardo cupo che non sapremmo se dire più torvo o triste, e la bocca leggermente contratta in una smorfia di stanco orgoglio" (Testa 535 della Collezione Torlonia è un ritratto di Catone il Censore)


Anzitutto, partiamo dal lessico, che salta subito all'occhio per la messe abbondantissima dei suoi arcaismi, che ad esempio nel Bellum Iughurtinum sostituiscono pressoché sistematicamente i corrispettivi moderni, laddove ad esempio in Cicerone o in Livio si ricorre ad essi solo in punti di particolare pathos o di stretto legame con fonti arcaiche, come gli annalisti per Livio. L'arcaismo era tradizionalmente percepito come poetismo, e già Cicerone ne sconsigliava l'uso nelle orazioni, piuttosto affettato e non poco ridicolo se eccessivo, evidenziandone il legame con la poesia specialmente arcaica: non è un caso che l'opera monumentale di Livio si apra con un 'operae pretium' che viene direttamente da Ennio, modello primario peraltro di una storia di Celio Antipatro, annalista di fine II a.C., oltre che modello importante per tutta la letteratura latina successiva.
Quindi, gli arcaismi sallustiani non sono, di per sé,  niente di originale, rientrando appieno nelle convenzioni del genere storiografico, 'quasi carmen solutum' e tipicamente vicino alla poesia: il fatto è che essi sono molto più numerosi e diffusi in proporzione alle diverse dimensioni dell'opera, per cui ad esempio se pure un antiquario come Livio mostra parti ben più dense di arcaismi rispetto ad altre, data anche la mole e l'eterogeneità del suo lavoro, in Sallustio possiamo trovare tranquillamente arcaismi per fatti del tutto normali. 
Si parla qui principalmente di arcaismi del tipo "optumus" o "advorsus" o "maxumus", dove il vocalismo in -u 'redolet antiquitatis', come il polemico Apro dirà contro i 'passatisti' all'interno del tacitiano  (a quanto pare) Dialogus de Oratoribus; altri sono "quis" per "quibus", -"is" per -"es" nominativo e accusativo plurale della terza declinazione e altro, che comunque bisogna ripeterlo non sono affatto prerogative sallustiane di per sé, essendo invece più o meno diffuse in gran parte degli autori sino alla prima età imperiale. 


Più tipicamente sallustiane invece, e testimonianza del suo legame con Catone, che possiamo approfondire anche grazie ad un saggio, pubblicato come tesi di laurea nel 1859 a Parigi da Felix Deltour, "De Sallustio Catonis imitatore", sono tendenze come quelle ad usare "mortales" al posto di "homines", anche in contesti non patetici, per cui ad es. Cato Contra Thermum "Ea videre multi mortales (...) multis mortalibus inspectantibus", con ripetizione a breve distanza e Sall. Bell. Cat. 1 "Sed diu magnum inter mortalis certamen fuit (...) Sed multi mortales, dediti ventri atque somno", dove l'uso di 'mortalis' può essere giustificato dal rilievo di questi passi, proemiale quello sallustiano e tutto preso dalla descrizione di un crimine- fustigazione pubblica e gratuita di alcuni decemviri da parte dell'imputato-quello dell'orazione di Catone: rispetto a 'homo' difatti 'mortalis' ha maggiore estensione, andando ad indicare- come osserva Frontone, grande ammiratore di Sallustio- 'in non so che modo un po' tutti, appartenenti ad ogni tipo e classe di persone, gente d'ogni età e sesso' laddove 'quando si parla di homines si potrebbe anche star parlando di una modesta e ristretta quantità di persone'. Qui dunque si può spiegare quest'uso col rilievo del momento, ma altrove abbiamo comunque 'mortales' in passi neutri, come Bell. Iugh. "Ea formidine multi mortales Romanis dediti obsides, frumentum et alia quae usui fore praebita...", in cui si sarebbe potuto scrivere anche soltanto "multi Romanis dediti obsides", come ad esempio avrebbe senz'altro fatto un Cesare. Altro elemento, assieme a molti altri che qui non possiamo mostrare, è la predilezione per voci quali 'benefacta', 'malefacta' e 'facinus' con valore neutro, per cui Cat. De signis "Malefacta benefactis non redemptitavere" o Contra Thermum "Tum nefarium facinus peiore facinore operire postulas e Sall. Iugh.85, nel grande discorso di Mario in corsa per il consolato "Benefacta mea reipublicae procedunt" o Bell. Cat. 52, nella requisitoria di Catone Uticense contro i congiurati "Haud facile alterius lubidini malefacta condonabam", termini che con l'evidenza della loro natura composta da semplice avverbio e flessione di facio recano l'impronta rigorosa e chiara del linguaggio arcaico, più di un potenziale alternativo "beneficia" o "maleficia" in cui l'apofonia latina ha nascosto la formazione originaria di composto. Ancora sul piano lessicale, viva la tendenza in Catone e Sallustio ad usare spesso costrutti arcaizzanti con supino, come Cat. Ad litis censorias "Quod uti prohibitum ire" e Sall. Bell. Cat. 52, ancora in Catone minore "Ne bonos omnis perditum eant" o Iugh. 85, di nuovo e non a caso in Mario, "Honorum praemia ereptum eunt", cui si aggiunge un favore per l'uso avverbiale di "transvorsum", come in Cat. "Secundae res laetitia transvorsum trudere solent a recte consulendo atque intelligendo" o come in Sall. Iugh 14 "ne quos....transvorsos agat ", nel discorso di Aderbale supplice in Senato per chiedere soccorso contro le insidie del cugino Giugurta. Notevoli anche costrutti come "reputare, considerare cum" per cui anziché usare un semplice ablativo abbiamo in Cat. Oratio apud Numantiam "Cogitate cum animis vostris" e, ancora non a caso, Mario in Sall. Iugh. 85 "Reputate cum animis vostris", uso quasi ridondante, oltre che arcaizzante per l'uso più strumentale che locale del termine 'animus'; similmente abbiamo uno stilema molto apprezzato in entrambi,  per cui di nuovo per esprimere complemento di modo o causa spesso il semplice ablativo è sostituito da un più corposo per+accusativo, come chiaro in Cat. Oratio apud Numantiam "Sed si qua per voluptatem nequiter feceritis voluptas cito abibit, nequiter factum illud apud vos semper manebit" o Cat. Contra Thermum "Per dedecus atque maxumam contumeliam te facere ausum esse!" e Sall. Bell. Cat. 41 "Inconsulte ac veluti per dementiam", Bell. Cat. 6 "Insolescere per licentiam animos hominum", Bell. Cat. 6 "Per ambitionem delinquere"; anche qui, il minor spazio lasciato al semplice ablativo e quindi la maggior specializzazione dell'uso di un caso retto e preposizione è caratteristica, se non arcaica, almeno arcaizzante. 
Ma passiamo ora ad aspetti sintattici, più immediati e anche personali rispetto a queste pur già ben caratterizzate tendenze. Anzitutto, nota Deltour, molto pronunciato è, soprattutto in Catone, un uso iterato della coordinante atque, palese in Cat. Ad Rhodienses "Scio solere plerisque hominibus in rebus secundis atque prolixis atque prosperis animum excellere atque superbiam atque ferociam augescere atque crescere", ma notevole pure in Sall. Bell.Cat. 2 "Postea quam in Asia Cyrus in Graecia Lacedaemonii et Athenienses coepere urbis atque nationes subigere tum demum periculo atque negotiis compertum est in bello plurumum ingenium posse. Quod si regum atque imperatorum animi virtus in pace ita uti in bello valeret aequabilius atque constantius sese res humanae haberent"; e già in questo vediamo il segno di quel 'abruptum orationis genus' e di quella 'Sallustiana brevitas' rispetto alle quali, nota Norden, Quintiliano metteva le mani avanti, non entrando in polemica netta come farà con Seneca ma pure consigliando grande cautela a non eccedere su questo frangente. 
Bisogna ora chiarire però che caratteristiche abbiano in Sallustio questi elementi giustamente rilevati da gran parte degli antichi, dal momento che una cosa è la brevitas di Sallustio e un'altra quella di Tacito o più ancora di Seneca. Come prima impressione, Sallustio procede in modo lento eppure solenne, usando poco coordinanti agili come il que enclitico, anche in contesti che vi si sarebbero potuti ben adattare come Bell.Cat. 52, in cui Catone minore descrive i congiurati come "qui patriae parentibus aris atque focis suis bellum paravere", optando al primo membro per un asindeto piuttosto che per un enclitico, anche per far meglio spiccare il forte e maestoso atque, cui si giunge in climax e senza la leggera pausa di stacco che l'enclitica richiederebbe tra i due membri che invece non si sono voluti distinguere in due blocchi ma accumulare; non a caso, quando Sallustio procede per enumeratio spesso preferisce l'asindeto, rapido ed incisivo, ad altre forme di coordinazione, come nel bel passaggio di Bell. Cat. 46, in cui Catilina esorta i suoi dicendo "Praeterea divitiae decus gloria in oculis sita sunt (...) Res tempus pericula egestas belli spolia magnifica magis quam oratio mea vos hortentur". Così come gli infiniti narrativi, di cui il Bell. Iugh. è ricchissimo soprattutto in scene di concitata battaglia come in 101 "Tum spectaculum horribile in campis patentibus: sequi fugere occidi capi; equi atque viri adflicti ac multi volneribus acceptis neque fugere posse neque requiem pati; niti modo ac statim concidere; postremo omnia qua visus erat constrata telis armis cadaveribus et inter ea humus infecta sanguine". 
Il fatto è che sostanzialmente Sallustio organizza il discorso in modo secco e paratattico, e quando inserisce subordinate raramente esse vanno oltre il secondo grado; diversamente da Cicerone, l'amplificazione e l'anfora non sono parte costitutiva del suo periodare così come, diversamente da Seneca, non si ha l'impressione che ogni breve frase sia stata pensata per essere applaudita come brillante sententia; curiosamente, in gran parte per la diversità dei generi ma anche per le diverse personalità, quel senso di esibizione tanto vivo che ci fa ammirare insieme e leggermente disprezzare sul piano della dignitas Seneca non manca di mostrarsi in certi passi di Cicerone in cui, come nelle prime due catilinare, il plauso che ci si aspetta per una simile esuberante teatralità è non, come per il Cordobese, l'ammiccamento sagace dell'intenditore o il gridolino della gran dama estasiata da tanta acutezza, ma il vociare diffuso e stupito di una folla, sia essa di senatori o di gente comune, la cui acclamazione finale sarebbe certo stata, per l'Arpinate, il miglior coronamento per un'oratoria che vuole palesemente essere incoronata e raggiungere il suo scopo: ebbene è curioso come nulla di ciò si senta mai in Sallustio. La sua opera pare non abbia alcun bisogno di amplificare o condensare se la scena non lo richiede, distante tanto dal ditirambo che dall'epigramma, libera da ogni sospetto di voluttuosa cortigianeria; è ovvio che paragonare discorsi tenuti in Senato o nel Foro a discorsi letterari di opere storiche ed alla narrazione storiografica stessa è cosa molto arrischiata e sbagliata per più di un punto, ma è altrettanto sicuro che chi fa parlare con tanta dignitosa sobrietà il protagonista di una sua monografia al momento finale prima dell'ultima battaglia (Bell. Cat. 58): "(...) Quapropter vos moneo uti forti atque parato animo sitis et cum proelium inibitis memineritis vos divitias decus gloriam praeterea libertatem atque patriam in dextris vostris portare. Si vincimus omnia nobis tuta erunt (...) Si metu cesserimus eadem illa advorsa fient neque locus neque amicus quisdam teget quem arma non texerint (...) Audacia pro muro habetur" non si sarebbe abbandonato in pubblico a una simile orgia di scalmanata eccitazione (Cic. Cat. 2.1): "Tandem aliquando, Quirites, L. Catilinam furentem audacia scelus anhelantem pestem patriae nefarie molientem vobis atque huic urbi ferro flammaque minitantem ex urbe vel eiecimus vel emisimus vel ipsum egredientem verbis prosecuti sumus. Abiit excessit evasit erupit." o (Cic. Cat. 1.33):"Tu Iuppiter qui isdem quibus haec urbs auspiciis a Romulo es constitutus  [rivolto al tempio di Giove Statore in cui aveva in occasione della prima grande requisitoria contro Catilina convocato il Senato], quem Statorem huius urbis atque imperii vere nominamus, hunc et eius socios a tuis ceterisque templis a tectis urbis ac moenibus a vita fortunisque civium omnium arcebis et homines bonorum inimicos hostis patriae latrones Italiae scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos, aeternis suppliciis vivos mortuosque mactabis", dove per inciso è molto istruttivo il confronto con l'altrettanto severa ma meno debordante accusa del Catone minore sallustiano, il cui discorso volto non ad allontanare da Roma Catilina, che era il fine dell'infiammata prima catilinaria di Cicerone, ma a far ammazzare immediatamente tutti i suoi complici che non lo avevano seguito in Etruria, mostra questi toni (Bell. Cat. 52) :"Postremo partes conscripti si mehercule peccato locus esset facile paterer vos ipsa re corrigi quoniam verba contemnitis. Sed undique circumventi sumus; Catilina cum exercitu faucibus urget  (...) Quare ego ita censeo: cum nefario consilio sceleratorum civium res publica in maxuma pericula venerit, eique indicio T. Volturci et legatorum Allobrogum convicti confessique sint caedem incendia aliaque se foeda atque crudelia facinora in civis patriamque paravisse, de confessis sicuti de manufestis rerum capitalium, more maiorum supplicium sumendum". Laddove Cicerone amplifica ogni concetto con anafore spesso rette da participi predicativi che, in modo piuttosto isocrateo, permettono l'estensione e quindi un numerus ed una coloritura larga ed ariosa- ma talora tumida e vacua direbbero i critici- Sallustio si limita a frasi nette, solide e conchiuse, spesso organizzate in modo binario, come Bell. Cat. 1 "Nam divitiarum et formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeternaque habetur" o Bell. Jugh 1 "Falso queritur de natura sua genus humanum, quod imbecilla atque aevi brevis forte potius quam virtute regatur (...) Sed dux atque imperator vitae animus est" o "Nam uti genus hominum compositum ex corpore et anima est ita res cunctae studiaque omnia nostra corporis alia alia animi naturam secuntur" o 46 "Nam in Iugurtha tantus dolus tantaque peritia locorum et militiae erat ut absens an presens pacem an bellum gerens perniciosior esset in incerto habebatur"  o ancora Bell. Cat. 51 "Qui demissi in obscuro vitam habent si quid iracundia deliquere pauci sciunt; fama atque fortuna pares sunt. (...) Ita in maxuma fortuna minima licentia est: neque studere neque odisse sed minime irasci decet. Quae apud alios iracundia dicitur ea in imperio superbia atque crudelitas appellatur".  Ben coerente con questa tendenziale preferenza per il binarismo è il ricorso all'antitesi, sempre moderato e utilizzato in rapporto principalmente ai ritratti, come quello di Catilina e il confronto tra Cesare e Catone minore, come nota Norden, che aggiunge poi come questa figura contrapponga tra loro di norma non intere frasi ma solo elementi racchiusi in una soltanto, come in Bell. Iugh. 85, in cui Mario dice contro la nobilitas che lo osteggia in quanto homo novus "Contemnunt novitatem meam ego illorum ignaviam. Mihi fortuna illis probra obiectantur", dove la severità e l'asindeto ricordano non a caso l'analoga antitesi di Catone maggiore De Praeda "Fures privatorum furtorum in nervo et compedibus aetatem agunt fures publici in purpura". Se infatti la tendenza alla coordinazione ed alla incisiva semplicità delle frasi è già di per se tipicamente arcaica (vd l'influenza dello stile delle leggi notata da Norden in Cat. Orationes XXI "Nam periniurium siet cum mihi ob eos mores quos prius habui honos detur, ubi datus est, tum uti eos mutem atque alii modi siem"), così come l'assenza di  iperbati e la chiusura di più frasi anche tra loro vicine con verbi allo stesso modo  e tempo oltre che talora  omissibili  (Cat. Incerta "Interea unamquamque turmam manipulum cohortem temptabam quid facere possent; proelis levibus spectabam cuiusmodi quisque esset; si quis strenue fecerat donabam honeste ut alii idem vellent facere atque multa in contione laudabam" e Sall. Bell. Cat. 7 "Iam primum iuventus simul laboris ac belli patiens erat in castris usu militiam discebat  (...) igitur talibus viris non labos insolitus non locus ullus asper aut arduus erat non armatus hostis formidulosus; virtus omnia domuerat (...) laudis avidi pecuniae liberales erant gloriam ingentem divitias honestas volebant"), particolarmente catoniana é tutta l'orazione di Mario in Bell. Iugh.85, per motivi ideologici mirabilmente resi nello stile asciutto e orgoglioso e per tutto lo spirito di fiera alterigia che promana dalla fiducia nelle proprie forze: con ostentata sfiducia nell'azione persuasiva e psicagogica  (quanta distanza da Gorgia!) della parola, condivisa non casualmente dallo splendido Catilina sallustiano di fronte alla fine imminente (Bell.Cat..58 "Compertum ego habeo,milites, verba virtutem non addere neque ex ignavo strenuum neque fortem ex timido exercitum oratione imperatoris fieri"), attraverso precisi richiami a passi catoniani  (incipit Iugh 85 "Scio ego, Quirites, plerosque non isdem artibus imperium a vobis petere" e Cat. Apud Rhodienses "Scio solere plerisque ecc" e anche Iugh. 85 "Ita ad hoc aetatis a pueritia fui ut omnis labores et pericula consueta habeam" e Cat. De suis virt. "Ego iam a principio in parsimonia atque in duritia atque industria omnem adolescentiam meam abstinui agro colendo saxis Sabinis silicibus repastinandis atque conserendis" o Bell. Iugh 85 "Nam quo pluris est univorsa res publica quam consulatus aut praetura eo maiore cura illam administrari quam haec peti debet. Neque me fallit quantum cum maxumo beneficio vostro negoti sustineam. Bellum parare simul et aerario parcere cogere ad militiam quos nolis offendere domi forisque omnia curare et ea agere inter invidos occursantis factiosos opinione, Quirites, asperius est" e Cat. Or. Fragm. I.1 "Scio ego atque iam pridem cognovi atque intellexi atque arbitror rem publicam curare industria summum periculum esse" e anche Bell .Iugh.85 "Equidem ego non ignoro si iam mihi respondere velint abunde illis facundam et compositam orationem fore (...) Me quidem ex animi mei sententia nulla oratio laedere potest; quippe vera necesse est bene praedicent falsa vita moresque mei superant" e Cat. in Plin. Maior N.H. Praef. 24 "Scio ego quae scripta sunt si palam proferantur multos fore qui vitiligent sed ii potissimum qui verae laudis expertes sunt. Ego eorum orationes sino praeterfluere" e molto altro). 
Ecco dunque la forza ed il vigore di un'oratoria che riesce maestosa e grande proprio nella sua virile e austera sicurezza, quasi sbrigativa per impellenza di quanto più conta: "Plura dicerem, Quirites, si timidis virtutem verba adderent: nam strenuis abunde dictum puto".

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