L’INTERVISTA: STORIA, TECNICHE ED EVOLUZIONE DI UN GENERE GIORNALISTICO [Tesi di Laurea di Massimo Costa - 2005] Indice
L’INTERVISTA: STORIA, TECNICHE ED EVOLUZIONE DI UN GENERE GIORNALISTICO
[Tesi di Laurea di Massimo Costa - 2005]
Indice
2.2 Le tipologie di intervista scritta
L’intervista diretta
Sui giornali la forma di intervista più gettonata è quella diretta, dove le domande e le risposte si susseguono in una successione evidenziata dalla diversità dei caratteri grafici. [...]. Riportiamo a titolo di esempio un brano dell’intervista di Roberto Gervaso a Mario Soldati, sul finire degli anni ’70. Le risposte stringate e le domande a raffica accentuano il ritmo e la brillantezza dell’intervista:
A chi, in Italia, daresti il Premio nobel?
A Giorgio Bassani.
Perché?
Innanzitutto, perché gli farebbe piacere.
Poi?
Perché se lo merita, visto anche a chi, in passato, l’assegnarono: Pearl Buck, ad esempio, o Quasimodo, buonanima.
Solo per questo?
No, anche perché, con le sue ideologie democratiche e pacifiste, è tipo da Nobel.
E a te non lo daresti?
No, per le stesse ragioni capovolte.
E se te lo imponessero?
L’accetterei. Così, finalmente, e magicamente, risolverei i miei problemi finanziari.
Ne hai molti?
Ho sempre avuto le mani bucate. Come mio padre, che fallì tre volte.[51]
L’intervista indiretta
Quando un giornalista inserisce il virgolettato dell’interlocutore senza domande dirette, siamo in presenza di una intervista indiretta.
“Ieri ho abbattuto 125 betulle”, racconta mentre annota su un cartoncino le otto piante – tutte a fusto stretto ma alte fino a 25 metri – che in dieci minuti ha tirato giù, segato e ammassato in una catasta che pare una zattera su un oceano di neve. “L’azienda Stora Enso me le paga un euro l’una” dice. Hannu Hestela ha passato oltre metà dei suoi 57 anni nei boschi circondato dalla solitudine, eppure non immagina davanti a sé nulla di diverso etc... l’uso di una rielaborazione in forma di intervista diretta sarebbe forviante per il lettore. Innanzitutto non tutte le domande sono state fatte dal giornalista che scrive il pezzo, e nessuna risposta è stata data solo a lui. Purtroppo non mancano i casi di conferenze stampa rielaborate in forma di intervista diretta, soprattutto nell’ambito del giornalismo sportivo. Non sbaglia chi le definisce “false interviste”.
2.6 Stampa e televisione: come cambia l’intervista
La tecnica giornalistica dell’intervista si differenzia anche in base al mezzo di comunicazione con il quale viene effettuata. Non è la stessa cosa intervistare la stessa persona per la televisione o per un quotidiano: i risultati sono spesso due interviste completamente diverse per chiarezza, scorrevolezza, impatto e ritmo.
a) Il tempo e lo spazio
b) La profondità del colloquio
La complicità tra intervistatore e intervistato, e il livello di profondità delle domande variano molta dalla televisione alla stampa. In poche domande è difficile scardinare le difese di un interlocutore reticente; viceversa se c’è tanto tempo a disposizione l’interlocutore generalmente tende ad aprirsi, (...) Non a caso è sui giornali che troviamo le interviste “ritratto”, dove si cerca di descrivere un personaggio in profondità. Inoltre le risposte degli intervistati sono più articolate e complete sulla stampa:
c) L’immediatezza e la comunicazione non verbale
Il grande vantaggio dell’intervista televisiva, se paragonata con la successione delle parole scritte, è l’immediatezza. Sergio Zavoli condusse per la Notte della Repubblica una serie di celebri interviste televisive. Poi le trascrisse e ne fece un libro contenente tutta l’inchiesta sugli anni di piombo in Italia. Nella prefazione del testo fa un esempio che può essere utile al nostro discorso:
Alcune interviste possono risultare significative anche per le risposte che non ottengono. Nell’intervista a Bonisoli, alla richiesta di descrivere il suo ruolo nell’uccisione della scorta di Aldo Moro, ci fu una risposta silenziosa, cioè uno sguardo d’impotenza, di resa e insieme di rifiuto. Poi, la successione di altre domande: “lei ha sparato quel giorno? Quanti colpi?”. “Non ricordo, un caricatore”. “Su chi?”. E qui, il cortocircuito. La domanda è perentoria, e ha l’aria di chiedere: “Glielo devo proprio dire, magari precisando il numero di morti”. Allora allunga una mano verso le telecamera e chiede: “Ci possiamo fermare?”. Io rispondo: “Si, certo…” Il video si oscura e nessuno saprà mai quanto è durata quella pausa. Nel montaggio un attimo; in questo libro, tre puntini di sospensione. Poi l’intervista ricomincia, e ormai ha preso un’altra piega https://youtu.be/FIF8P3z3RPA?t=141
d) La scelta del personaggio
e) La preparazione del giornalista
Capitolo 3
La tecnica giornalistica dell’intervista
3.2 La preparazione
“La situazione peggiore, da intervistato, è quella di rendersi conto di parlare e rispondere a una persona che non sa nulla di te. Quando iniziano dicendo: “Beppe Severgnini, non ha certo bisogno di presentazioni…”, io invece ribatto: “Mi presenti, mi presenti…” Il più delle volte usano questa espressione perché non sanno nemmeno cosa faccio, dove lavoro, cosa ho scritto…”.
“Una buona intervista ha bisogno di molta preparazione. Diciamo almeno un giorno di lavoro, telefonando agli amici e ai nemici, leggendo tutti i ritagli sul personaggio, che spesso sono moltissimi, e se c’è qualche libro da leggere tocca farlo. La preparazione è ciò che fa la differenza tra una buona e una cattiva intervista”.
Informarsi sulla persona da incontrare richiede tempo e fatica, ma è la condizione necessaria affinché le domande non siano ovvie e banali; non cadano insomma nel “già letto, o già sentito”. (...)
Tutto questo lavoro preparatorio può sfociare in qualche appunto da tenere sott’occhio durante il colloquio, oppure nella scrittura delle domande da porgli: è un’operazione faticosa ma porta dei risultati importanti. Infatti l’intervistato apprezza sempre il giornalista che dimostra di conoscerlo bene, e lo prende più sul serio. (...) Oriana Fallaci, per essere all’altezza dei potenti che andava a intervistare, si preparava scrupolosamente in ogni minimo dettaglio e non lasciava mai nulla al caso. La sua personalità battagliera e scontrosa era sostenuta dalla perfetta conoscenza delle materie di cui parlava con capi di stato, guerriglieri, generali o presidenti della Repubblica. Senza questa preparazione, e senza la carica emotiva che si portava dietro, la Fallaci sicuramente non avrebbe scritto delle “interviste con la storia” così riuscite.
Nel suo manuale, Alberto Papuzzi descrive il criterio che regola la scelta delle domande di un’intervista. “L’oggetto dell’intervista può essere o uno specifico argomento, di cui l’intervistato è esperto o su cui è un testimone privilegiato, o la personalità dell’intervistato, le sue vicende, le sue attività, una sua esperienza. Chiameremo tematica la prima intervista, personale la seconda. Nell’intervista tematica si procede con domande precise e reiterate, che non lasciano spazio a risposte generiche. Nell’intervista personale, l’intervistatore deve riuscire a catturare la fiducia dell’intervistato, per cui si parte da domande semplici, che possono riguardare i luoghi in cui una persona ha vissuto, le persone che hanno contato e contano nella sua vita, le sue preferenze artistiche, i suoi gusti, il significato che attribuisce a esperienze comuni. Siamo di fronte a due modi diversi se non opposti di condurre un’intervista: nel primo caso l’intervistato deve essere ricondotto continuamente e ostinatamente nel tema centrale, nel secondo caso è meglio non interromperlo”
3.4 Registratore e block notes
“L’uso del registratore è una garanzia per non perdere passaggi importanti e per controllarli al momento della stesura dell’intervista. Nel giornalismo americano è quasi un obbligo; inoltre consente di essere fedeli, se è il caso, al modo di esprimersi dell’intervistato”. Si può paragonare ad una polizza di assicurazione: per ogni malinteso, incomprensione o contrasto il registratore è una prova inconfutabile.
Naturalmente obbliga il giornalista ad un lavoro lungo che è quello della sbobinatura. Mettiamo il caso che il colloquio sia lungo, gli elementi importanti siano pochi e si debba riscrivere il pezzo subito: in questo caso non c’è il tempo di ascoltarla tutta, si possono risentire alcuni passaggi delicati, ma gli appunti dovrebbero bastare per ricostruire il colloquio.
Stefano Lorenzetto illustra i motivi per cui si usa il registratore:
“Innanzitutto consente di prendere appunti durante il colloquio, senza dover per forza scrivere tutto ciò che viene detto. Poi impedisce eventuali contestazioni: tutto quello che viene detto è registrato, e nei passi più sconvenienti o delicati io riporto tutto alla lettera così non ci possono essere contestazioni. Senza registratore non si potrebbe scrivere tutto e pensare alla domanda successiva da fare: il pensiero è sempre più veloce della mano. Infine è indispensabile verificare d’avere capito bene quando si parla di temi scientifici e filosofici: lo si può fare solo con il registratore”[
3.7 Che cosa rischia il giornalista
I ritratti della Fallaci si riconoscono innanzitutto per la loro lunghezza sterminata. È una caratteristica tipica del suo stile di giornalista e di scrittrice; ancora oggi quando interviene sui giornali, i suoi pezzi occupano intere pagine. Sul settimanale L’Europeo le interviste pubblicate negli anni ’70 occupavano, con le fotografie del personaggio, tra le otto e le dieci pagine. Per interrogare gli interlocutori in profondità e trarne articoli non estemporanei, i colloqui dovevano avere una durata considerevole, cosa non semplice se consideriamo la statura e i mille impegni dei personaggi avvicinati.
Il numero di domande arriva anche a cinquanta per intervista, le risposte sono complete, sempre argomentate e mai telegrafiche. Generalmente le interviste della Fallaci si aprono con la descrizione fisica dell’interlocutore, del luogo del colloquio, e di alcuni elementi utili a mettere in guardia il lettore sul personaggio o a smontare alcuni luoghi comuni su di lui.
Lo stile è lo stesso dei grandi romanzi della Fallaci: una scrittura soggettiva, vivace, appassionante, composta di frasi brevi, con un linguaggio ricco, un ritmo sostenuto che non annoia il lettore, descrizioni dettagliate e metafore azzeccate.
Riportiamo come esempio l’inizio dell’intervista con il leader palestinese Yasser Arafat:
“Quando arrivò, puntualissimo, rimasi un attimo incerta a dirmi che no, non poteva essere lui. Sembrava troppo giovane, troppo innocuo. Almeno al primo sguardo, non avvertivi niente in lui che denunciasse autorità, o quel fluido misterioso che emana sempre da un capo investendoti come un profumo o uno schiaffo. Di impressionante non aveva che i baffi, folti e identici ai baffi che ciascun arabo porta, e il fucile mitragliatore che teneva in spalla con la disinvoltura di chi non se ne stacca mai. Certo, lo amava tanto, quel fucile, da averlo fasciato all’impugnatura con nastro adesivo color verde ramarro: divertente e grazioso. Di statura era piccolo, un metro e sessanta, direi. E anche le mani erano piccole, anche i piedi. Troppo, pensavi, per sostenere due gambe così grasse e un tronco così massiccio, dai fianchi immensi e il ventre gonfio di obesità. Su tutto ciò si rizzava una testaccia minuscola, col volto incorniciato dal kassiah, e solo osservando quel volto ti convincevi che sì: era lui Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, l’uomo di cui si parlava tanto, fino alla noia”.
In queste interviste, le domande sono sempre dirette e vanno al cuore dei problemi: non troviamo mai perifrasi, giri di parole, termini burocratici tipici dei colloqui politici. I quesiti sono accompagnati sempre da argomentazioni o da alcuni dati a supporto della propria tesi. Il tono veemente e immediato costringe l’interlocutore ad aprirsi e a dover sempre giustificare le proprie risposte. In caso di tematiche complesse, la Fallaci tende a semplificare senza banalizzare, per far si che tutti i lettori possano comprendere e farsi un giudizio.
Per marcare le distanze con l’interlocutore, Oriana Fallaci dà sempre del lei all’intervistato, accompagnato sempre dalla carica che ricopre o da una denominazione: “Signora Gandhi” per Indira gandhi, Dottor Kissinger, Senatore Nenni, “Maestà” per Rehza Palavi, “Signor presidente” per Alì Butto.
L’andamento ricorrente è quello di una domanda generale, alla quale si succedono poi domande sempre più precise sull’argomento fino ad arrivare al nocciolo della questione. Per ogni risposta, la giornalista dice la sua o fa trasparire il suo pensiero opposto o coincidente a quello dell’interlocutore. La Fallaci tende a usare la prima persona singolare nelle domande più scomode o impertinenti e la prima persona plurale quando si fa portatrice davanti la potere delle istanze dei lettori.
Ad esempio, quando incontrò la presidente indiana Indira Gandhi, la successione delle domande sulla guerra al Pakistan fu la seguente:
Incomincerò dalla domande più brutale. Lei ha vinto, stravinto una guerra. Però non siamo in pochi a considerare questa vittoria come una vittoria pericolosa. Crede davvero che il Bangla Desh sia l’alleato che sperava? Non teme che possa rivelarsi invece un peso assai scomodo?
L’esperienza di inviata di guerra dentro la barbarie dei conflitti, in paesi come il Vietnam, l’India, il Pakistan, l’Iran e Israele – solo per citarne alcuni – permette alla Fallaci di porre le proprie domande con la forza del suo vissuto personale. Quindi capita spesso che rafforzi le domande con affermazioni del tipo: “Io ho visto i linciaggi paurosi a Dacca..”, “Noi qui a Saigon si diceva…”, “Qui a Teheran le gente si chiude in un silenzio impaurito..”.
Ogni incontro di questo tipo ha esposto la Fallaci ad una serie di problemi e di rischi. Innanzitutto è difficile esser presa sul serio da interlocutori di questo calibro. Inoltre si è confrontata con realtà culturali totalmente diverse, con il problema del traduttore e della palese opposizione tra le sue idee e quelle dei suoi interlocutori. Oriana Fallaci decise di non venire mai meno alle proprie convinzioni (giuste o sbagliate che siano). E per questo non si mise mai in ginocchio. Nemmeno di fronte ad Arafat:
Lei non è un uomo giusto. Io sono qui e sto ascoltando lei. E dopo questa intervista riferirò parola per parola ciò che mi ha detto lei.
Voi europei siete sempre per loro. Forse qualcuno di voi incomincia a capirci: è nell’aria, si annusa. Ma in sostanza restate per loro.
Questa è la vostra guerra, non è la nostra. E in questa guerra noi non siamo che spettatori. Ma anche come spettatori lei non può chiederci di essere contro gli ebrei.
Già, voi dovete pagare i vostri conti con loro E volete pagarli col nostro sangue, con la nostra terra. (…) L’ignoranza sulla Palestina non è ammessa perché la Palestina la conoscete bene: ci avete mandato i vostri Crociati ed è un paese sotto i vostri occhi. Non è l’Amazzonia. Io credo che un giorno la vostra coscienza si sveglierà ma fino a quel momento è meglio non vederci.
Per questo lei porta sempre gli occhiali neri?
No. Li porto per non far capire se dormo o son sveglio. Ma, detto fra noi, io son sempre sveglio dietro ai miei occhiali. Dormo solo quando me li tolgo, e dormo pochissimo. Niente domande personali, avevo detto.
Solo una. Lei non è sposato e non si conoscono donne nella sua vita. Vuol fare come Ho-Chi-min o l’idea di vivere accanto a una donna la ripugna?
No, diciamo che non ho mai trovato la donna giusta. E ora non c’è più tempo. Ho sposato una donna che si chiama PalestinA.
Il potere mal digeriva questi incontri con una personalità del calibro della Fallaci.
L’intervista diretta
Sui giornali la forma di intervista più gettonata è quella diretta, dove le domande e le risposte si susseguono in una successione evidenziata dalla diversità dei caratteri grafici. [...]. Riportiamo a titolo di esempio un brano dell’intervista di Roberto Gervaso a Mario Soldati, sul finire degli anni ’70. Le risposte stringate e le domande a raffica accentuano il ritmo e la brillantezza dell’intervista:
A chi, in Italia, daresti il Premio nobel?
A Giorgio Bassani.
Perché?
Innanzitutto, perché gli farebbe piacere.
Poi?
Perché se lo merita, visto anche a chi, in passato, l’assegnarono: Pearl Buck, ad esempio, o Quasimodo, buonanima.
Solo per questo?
No, anche perché, con le sue ideologie democratiche e pacifiste, è tipo da Nobel.
E a te non lo daresti?
No, per le stesse ragioni capovolte.
E se te lo imponessero?
L’accetterei. Così, finalmente, e magicamente, risolverei i miei problemi finanziari.
Ne hai molti?
Ho sempre avuto le mani bucate. Come mio padre, che fallì tre volte.[51]
L’intervista indiretta
Quando un giornalista inserisce il virgolettato dell’interlocutore senza domande dirette, siamo in presenza di una intervista indiretta.
“Ieri ho abbattuto 125 betulle”, racconta mentre annota su un cartoncino le otto piante – tutte a fusto stretto ma alte fino a 25 metri – che in dieci minuti ha tirato giù, segato e ammassato in una catasta che pare una zattera su un oceano di neve. “L’azienda Stora Enso me le paga un euro l’una” dice. Hannu Hestela ha passato oltre metà dei suoi 57 anni nei boschi circondato dalla solitudine, eppure non immagina davanti a sé nulla di diverso etc... l’uso di una rielaborazione in forma di intervista diretta sarebbe forviante per il lettore. Innanzitutto non tutte le domande sono state fatte dal giornalista che scrive il pezzo, e nessuna risposta è stata data solo a lui. Purtroppo non mancano i casi di conferenze stampa rielaborate in forma di intervista diretta, soprattutto nell’ambito del giornalismo sportivo. Non sbaglia chi le definisce “false interviste”.
La tecnica giornalistica dell’intervista si differenzia anche in base al mezzo di comunicazione con il quale viene effettuata. Non è la stessa cosa intervistare la stessa persona per la televisione o per un quotidiano: i risultati sono spesso due interviste completamente diverse per chiarezza, scorrevolezza, impatto e ritmo.
a) Il tempo e lo spazio
b) La profondità del colloquio
La complicità tra intervistatore e intervistato, e il livello di profondità delle domande variano molta dalla televisione alla stampa. In poche domande è difficile scardinare le difese di un interlocutore reticente; viceversa se c’è tanto tempo a disposizione l’interlocutore generalmente tende ad aprirsi, (...) Non a caso è sui giornali che troviamo le interviste “ritratto”, dove si cerca di descrivere un personaggio in profondità. Inoltre le risposte degli intervistati sono più articolate e complete sulla stampa:
c) L’immediatezza e la comunicazione non verbale
Il grande vantaggio dell’intervista televisiva, se paragonata con la successione delle parole scritte, è l’immediatezza. Sergio Zavoli condusse per la Notte della Repubblica una serie di celebri interviste televisive. Poi le trascrisse e ne fece un libro contenente tutta l’inchiesta sugli anni di piombo in Italia. Nella prefazione del testo fa un esempio che può essere utile al nostro discorso:
Alcune interviste possono risultare significative anche per le risposte che non ottengono. Nell’intervista a Bonisoli, alla richiesta di descrivere il suo ruolo nell’uccisione della scorta di Aldo Moro, ci fu una risposta silenziosa, cioè uno sguardo d’impotenza, di resa e insieme di rifiuto. Poi, la successione di altre domande: “lei ha sparato quel giorno? Quanti colpi?”. “Non ricordo, un caricatore”. “Su chi?”. E qui, il cortocircuito. La domanda è perentoria, e ha l’aria di chiedere: “Glielo devo proprio dire, magari precisando il numero di morti”. Allora allunga una mano verso le telecamera e chiede: “Ci possiamo fermare?”. Io rispondo: “Si, certo…” Il video si oscura e nessuno saprà mai quanto è durata quella pausa. Nel montaggio un attimo; in questo libro, tre puntini di sospensione. Poi l’intervista ricomincia, e ormai ha preso un’altra piega https://youtu.be/FIF8P3z3RPA?t=141
d) La scelta del personaggio
e) La preparazione del giornalista
“La situazione peggiore, da intervistato, è quella di rendersi conto di parlare e rispondere a una persona che non sa nulla di te. Quando iniziano dicendo: “Beppe Severgnini, non ha certo bisogno di presentazioni…”, io invece ribatto: “Mi presenti, mi presenti…” Il più delle volte usano questa espressione perché non sanno nemmeno cosa faccio, dove lavoro, cosa ho scritto…”.
“Una buona intervista ha bisogno di molta preparazione. Diciamo almeno un giorno di lavoro, telefonando agli amici e ai nemici, leggendo tutti i ritagli sul personaggio, che spesso sono moltissimi, e se c’è qualche libro da leggere tocca farlo. La preparazione è ciò che fa la differenza tra una buona e una cattiva intervista”.
Informarsi sulla persona da incontrare richiede tempo e fatica, ma è la condizione necessaria affinché le domande non siano ovvie e banali; non cadano insomma nel “già letto, o già sentito”. (...)
Tutto questo lavoro preparatorio può sfociare in qualche appunto da tenere sott’occhio durante il colloquio, oppure nella scrittura delle domande da porgli: è un’operazione faticosa ma porta dei risultati importanti. Infatti l’intervistato apprezza sempre il giornalista che dimostra di conoscerlo bene, e lo prende più sul serio. (...) Oriana Fallaci, per essere all’altezza dei potenti che andava a intervistare, si preparava scrupolosamente in ogni minimo dettaglio e non lasciava mai nulla al caso. La sua personalità battagliera e scontrosa era sostenuta dalla perfetta conoscenza delle materie di cui parlava con capi di stato, guerriglieri, generali o presidenti della Repubblica. Senza questa preparazione, e senza la carica emotiva che si portava dietro, la Fallaci sicuramente non avrebbe scritto delle “interviste con la storia” così riuscite.
“L’uso del registratore è una garanzia per non perdere passaggi importanti e per controllarli al momento della stesura dell’intervista. Nel giornalismo americano è quasi un obbligo; inoltre consente di essere fedeli, se è il caso, al modo di esprimersi dell’intervistato”. Si può paragonare ad una polizza di assicurazione: per ogni malinteso, incomprensione o contrasto il registratore è una prova inconfutabile.
Naturalmente obbliga il giornalista ad un lavoro lungo che è quello della sbobinatura. Mettiamo il caso che il colloquio sia lungo, gli elementi importanti siano pochi e si debba riscrivere il pezzo subito: in questo caso non c’è il tempo di ascoltarla tutta, si possono risentire alcuni passaggi delicati, ma gli appunti dovrebbero bastare per ricostruire il colloquio.
Stefano Lorenzetto illustra i motivi per cui si usa il registratore:
“Innanzitutto consente di prendere appunti durante il colloquio, senza dover per forza scrivere tutto ciò che viene detto. Poi impedisce eventuali contestazioni: tutto quello che viene detto è registrato, e nei passi più sconvenienti o delicati io riporto tutto alla lettera così non ci possono essere contestazioni. Senza registratore non si potrebbe scrivere tutto e pensare alla domanda successiva da fare: il pensiero è sempre più veloce della mano. Infine è indispensabile verificare d’avere capito bene quando si parla di temi scientifici e filosofici: lo si può fare solo con il registratore”[
I ritratti della Fallaci si riconoscono innanzitutto per la loro lunghezza sterminata. È una caratteristica tipica del suo stile di giornalista e di scrittrice; ancora oggi quando interviene sui giornali, i suoi pezzi occupano intere pagine. Sul settimanale L’Europeo le interviste pubblicate negli anni ’70 occupavano, con le fotografie del personaggio, tra le otto e le dieci pagine. Per interrogare gli interlocutori in profondità e trarne articoli non estemporanei, i colloqui dovevano avere una durata considerevole, cosa non semplice se consideriamo la statura e i mille impegni dei personaggi avvicinati.
Il numero di domande arriva anche a cinquanta per intervista, le risposte sono complete, sempre argomentate e mai telegrafiche. Generalmente le interviste della Fallaci si aprono con la descrizione fisica dell’interlocutore, del luogo del colloquio, e di alcuni elementi utili a mettere in guardia il lettore sul personaggio o a smontare alcuni luoghi comuni su di lui.
Lo stile è lo stesso dei grandi romanzi della Fallaci: una scrittura soggettiva, vivace, appassionante, composta di frasi brevi, con un linguaggio ricco, un ritmo sostenuto che non annoia il lettore, descrizioni dettagliate e metafore azzeccate.
Riportiamo come esempio l’inizio dell’intervista con il leader palestinese Yasser Arafat:
“Quando arrivò, puntualissimo, rimasi un attimo incerta a dirmi che no, non poteva essere lui. Sembrava troppo giovane, troppo innocuo. Almeno al primo sguardo, non avvertivi niente in lui che denunciasse autorità, o quel fluido misterioso che emana sempre da un capo investendoti come un profumo o uno schiaffo. Di impressionante non aveva che i baffi, folti e identici ai baffi che ciascun arabo porta, e il fucile mitragliatore che teneva in spalla con la disinvoltura di chi non se ne stacca mai. Certo, lo amava tanto, quel fucile, da averlo fasciato all’impugnatura con nastro adesivo color verde ramarro: divertente e grazioso. Di statura era piccolo, un metro e sessanta, direi. E anche le mani erano piccole, anche i piedi. Troppo, pensavi, per sostenere due gambe così grasse e un tronco così massiccio, dai fianchi immensi e il ventre gonfio di obesità. Su tutto ciò si rizzava una testaccia minuscola, col volto incorniciato dal kassiah, e solo osservando quel volto ti convincevi che sì: era lui Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, l’uomo di cui si parlava tanto, fino alla noia”.
In queste interviste, le domande sono sempre dirette e vanno al cuore dei problemi: non troviamo mai perifrasi, giri di parole, termini burocratici tipici dei colloqui politici. I quesiti sono accompagnati sempre da argomentazioni o da alcuni dati a supporto della propria tesi. Il tono veemente e immediato costringe l’interlocutore ad aprirsi e a dover sempre giustificare le proprie risposte. In caso di tematiche complesse, la Fallaci tende a semplificare senza banalizzare, per far si che tutti i lettori possano comprendere e farsi un giudizio.
Per marcare le distanze con l’interlocutore, Oriana Fallaci dà sempre del lei all’intervistato, accompagnato sempre dalla carica che ricopre o da una denominazione: “Signora Gandhi” per Indira gandhi, Dottor Kissinger, Senatore Nenni, “Maestà” per Rehza Palavi, “Signor presidente” per Alì Butto.
L’andamento ricorrente è quello di una domanda generale, alla quale si succedono poi domande sempre più precise sull’argomento fino ad arrivare al nocciolo della questione. Per ogni risposta, la giornalista dice la sua o fa trasparire il suo pensiero opposto o coincidente a quello dell’interlocutore. La Fallaci tende a usare la prima persona singolare nelle domande più scomode o impertinenti e la prima persona plurale quando si fa portatrice davanti la potere delle istanze dei lettori.
Ad esempio, quando incontrò la presidente indiana Indira Gandhi, la successione delle domande sulla guerra al Pakistan fu la seguente:
Incomincerò dalla domande più brutale. Lei ha vinto, stravinto una guerra. Però non siamo in pochi a considerare questa vittoria come una vittoria pericolosa. Crede davvero che il Bangla Desh sia l’alleato che sperava? Non teme che possa rivelarsi invece un peso assai scomodo?
L’esperienza di inviata di guerra dentro la barbarie dei conflitti, in paesi come il Vietnam, l’India, il Pakistan, l’Iran e Israele – solo per citarne alcuni – permette alla Fallaci di porre le proprie domande con la forza del suo vissuto personale. Quindi capita spesso che rafforzi le domande con affermazioni del tipo: “Io ho visto i linciaggi paurosi a Dacca..”, “Noi qui a Saigon si diceva…”, “Qui a Teheran le gente si chiude in un silenzio impaurito..”.
Ogni incontro di questo tipo ha esposto la Fallaci ad una serie di problemi e di rischi. Innanzitutto è difficile esser presa sul serio da interlocutori di questo calibro. Inoltre si è confrontata con realtà culturali totalmente diverse, con il problema del traduttore e della palese opposizione tra le sue idee e quelle dei suoi interlocutori. Oriana Fallaci decise di non venire mai meno alle proprie convinzioni (giuste o sbagliate che siano). E per questo non si mise mai in ginocchio. Nemmeno di fronte ad Arafat:
Lei non è un uomo giusto. Io sono qui e sto ascoltando lei. E dopo questa intervista riferirò parola per parola ciò che mi ha detto lei.
Voi europei siete sempre per loro. Forse qualcuno di voi incomincia a capirci: è nell’aria, si annusa. Ma in sostanza restate per loro.
Questa è la vostra guerra, non è la nostra. E in questa guerra noi non siamo che spettatori. Ma anche come spettatori lei non può chiederci di essere contro gli ebrei.
Già, voi dovete pagare i vostri conti con loro E volete pagarli col nostro sangue, con la nostra terra. (…) L’ignoranza sulla Palestina non è ammessa perché la Palestina la conoscete bene: ci avete mandato i vostri Crociati ed è un paese sotto i vostri occhi. Non è l’Amazzonia. Io credo che un giorno la vostra coscienza si sveglierà ma fino a quel momento è meglio non vederci.
Per questo lei porta sempre gli occhiali neri?
No. Li porto per non far capire se dormo o son sveglio. Ma, detto fra noi, io son sempre sveglio dietro ai miei occhiali. Dormo solo quando me li tolgo, e dormo pochissimo. Niente domande personali, avevo detto.
Solo una. Lei non è sposato e non si conoscono donne nella sua vita. Vuol fare come Ho-Chi-min o l’idea di vivere accanto a una donna la ripugna?
No, diciamo che non ho mai trovato la donna giusta. E ora non c’è più tempo. Ho sposato una donna che si chiama PalestinA.
Il potere mal digeriva questi incontri con una personalità del calibro della Fallaci.
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