BOLLE DI SAPONE di L. Montenovo

In quel momento Max entrò nella stanza, che somigliava più alla stanza di un carcere che
a quella di un ospedale. Dovette fermarsi più volte sull’uscio della camera per convincersi
ad entrare senza piangere. Non ci credeva ancora, non voleva crederci, eppure erano
passati già parecchi giorni. Quella bimba che correva senza pensieri nel vialetto di casa,
quel sorriso capace di sciogliere anche i nazisti, quegli occhioni azzurri a cui non si poteva
negare nulla, quella ragazzina con la quale non potevi avere una conversazione senza
che ti correggesse almeno un paio di volte sulla struttura della frase o la correttezza
grammaticale, adesso era… Pochi secondi dopo gli squillò il telefono, facendolo
sobbalzare poiché era convinto di averlo spento: -Papà…ciao…no, qui veramente sono le
due di pomeriggio…si può sapere quando diavolo torni? Sono stufo della storia del
contrattempo, lo siamo tutti. Non puoi spiegare ai tuoi cari superiori la faccenda…non gli
puoi dire che è un’emergenza e che è urgente che tu torni subito a casa!??...c’è niente
più importante di tua figlia? ... sì, certo… ormai sono nove giorni che è entrata in coma… i
medici dicono che può svegliarsi da un momento all’altro, ma che potrebbe anche entrare
in coma profondo…perché non si sveglia?? Che cosa ha fatto di male questa creatura? …
no… se tu fossi qui lo sapresti…non avremmo mai dovuto lasciare che si allontanasse da
sola l’altro giorno… era triste, piangeva… ma non avrei mai pensato che arrivasse a
tanto…è tornata su quella strada…no, ho parlato col commissario ieri. Ha detto che è
stato un incidente, c’erano testimoni, si è sporta troppo dal ciglio della strada ed è
scivolata…lo so che non ce l’hai con noi... ma avremmo dovuto starci più attenti…sì, va
bene…ti chiamo più tardi…ma tu cerca di sbrigarti…- Chiuse la telefonata e lanciò il
telefono sulla poltrona vicino al letto. Prese la mano della sorellina. Quella manina che
aveva stretto tante volte mentre la accompagnava a scuola, e adesso si pentiva
amaramente di non averle detto più volte quanto voleva bene a quel piccolo terremoto
che gli aveva reso la vita un po’ più dolce…
Silenzio. Sembra tutto così semplice. O forse no. Quando rimani sola con i tuoi pensieri
c’è sempre il rischio che loro ti assordino. Eppure da quel giorno il silenzio mi terrorizza.
Ho sempre paura di sentire la sua voce, eppure vivo col terrore di dimenticarmi il suo
viso. I miei mi hanno dato un nome che adoro, Gioia, ispira serenità e spensieratezza,
voglia di vivere. Non è che io non abbia una vita serena o che non sia felice, anzi. I miei
amici hanno sempre detto che quando arrivo io nella stanza entra un raggio di sole. Che
cosa vogliano dire per esattezza non l’ho mai capito, ma mi adeguerò. Nella vita me la
sono sempre dovuta cavare da sola, i miei genitori non sono mai stati due figure così
presenti. Per inciso: non lo sono state quasi mai. Eravamo felici, fino a quella maledetta
notte. Eppure non mi sono mai sentita sola, anche grazie ai miei fratelli. Mi sono sempre
rimasti accanto. Sempre capaci di ridarmi il sorriso. Due caratteri completamente opposti,
anche per questo li adoro. Max ormai ha diciannove anni, con lui ho sempre litigato,
anche se in modo amorevole. Abbiamo un rapporto strano. Lui mi decapita le bambole e
io gli riduco a brandelli le ricerche per la scuola. Ma alla fine ci riappacifichiamo sempre. A
modo suo lui si prende cura di me. E poi c’è Fede, tra noi tre è sicuramente quello più
responsabile, anche se vive con i suoi perenni venti minuti di ritardo. Ventiquattro anni,
credo che abbia lui la mia custodia legale. Il che non mi dispiace, ma non è sempre stato
piacevole, soprattutto a scuola, quando tutti facevano il regalo alla mamma o al papà, io i
miei li recapitavo tutti a lui, finché dopo qualche anno ho smesso di andare a scuola in
quei giorni. Più che altro per risparmiarmi quell’agonia. Federico è sempre stato la luce
nel buio. Mi consolava quando piangevo, giocava con me quando ero sola, mi ha sempre
protetta. Anche se adesso che sono adolescente, comincia ed essere vagamente
assillante. Dove vai? Con chi sei? Quando torni? Ti vengo a prendere? Sono diventate la
mia quotidianità. E poi c’è Max che replica: -Che ti importa quando torna? Al massimo la
rapiranno gli alieni…non una gran perdita…- e mi strizza l’occhio. Entrambi hanno dovuto
crescere in fretta, per poter badare ad una ragazzina. A volte mi sento in colpa. Credo che
Federico non si sia mai goduto appieno la sua adolescenza. Avrebbe potuto andarsene,
abbandonarmi a qualche parente e scappare lontano. Non l’ha fatto. Quel bastardo di mio
padre alla prima occasione se l’è filata, tornando a fare l’eroe all’estero, lontano dai suoi
figli e dal suo passato. È un militare nell’esercito, credo maggiore, o forse colonnello. Si
trova molto spesso fuori dalla nazione, il più delle volte si tratta di missioni di
intercettazione, chiusi per mesi in un sottomarino da qualche parte sulle coste occidentali
dell’America. L’ultima volta che l’ho visto…credo…tre anni fa. Anche se grazie a lui non
viviamo come dei barboni sotto un ponte, ma godiamo di una qual certa stabilità
economica grazie ai soldi che ci manda, avrei preferito mille volte vivere in una baracca
ma avercelo accanto, che vivere in una villa con lui che fa il salvatore a due oceani di
distanza. Per quanto io posso avercela con lui per averci lasciati, non riesco ad odiarlo. È
pur sempre mio padre. E non credo che sia colpa sua se lo sbattono di qua e di là ogni
anno per svolgere missioni diverse. Ricordo l’anno scorso. C’era una festa per gli ufficiali
dell’esercito e le loro figlie e lui aveva promesso che mi ci avrebbe portato. Inutile dire
che non si è mai presentato. C’è stato un problema in non so quale paese e non si è
potuto muovere da dov’era. Credo di essermi esaurita la riserva di lacrime quella sera. I
miei fratelli hanno provato a convincermi che mi avrebbero accompagnato loro a quella
festa. Non ne ho voluto sapere. Non mi sarei più mossa da quel divano restando ad
aspettarlo col mio vestito azzurro. Mi avrebbe trovata lì quando sarebbe tornato. Solo
poche ore dopo ho capito che era un ragionamento infantile. Se volevo pensare da persona matura avrei dovuto togliermi quel vestito e passare alla fase successiva:
l’accettazione. E così feci. Aspetto tutt’ora, cercando di non godere troppo di quei non
pochi soldi che ci arrivano a fine mese. Non ho mai capito se a scuola io sia una ragazza
piuttosto ricercata per l’aspetto, la personalità o per i soldi. Forse per tutti e tre. Non mi
voglio nascondere dietro a un dito e non sono una di quelle che dicono di essere brutte
solo per farsi conoscere. Non mi giudico bruttina, tutt’altro. Lei era bellissima. Gli occhi li
ho presi da lei, qualcuno dice anche il sorriso. I capelli invece li ho presi da papà, e così io
ho lunghi capelli mori e due grandi occhi azzurri. Dicono che chi mi guarda per la prima
volta rimanga di sasso solo a fissarmi negli occhi. Non l’ho mai detta a nessuno questa
cosa (detta fra l’altro dalla mia migliore amica che ha anche lei due occhioni verdi niente
male), non mi piace vantarmi. Da lei dovrei anche aver preso la passione per la filosofia e
la letteratura. Adoro la scuola che ho scelto. Adoro le materie, le attività, i professori, gli
amici. Studiare mi è sempre piaciuto molto. Fa riflettere sugli avvenimenti passati e futuri,
e aiuta a non pensare. O almeno, quando tengo la testa dentro un grosso libro di storia,
penso di meno. I miei compagni si lamentano sempre dei troppi compiti e delle pile di
verifiche da consegnare. Mi chiedono come mai io sia così rilassata durante i periodi
scolastici più intensi e si chiedono come faccio da essere più a mio agio in classe che a
casa mia. Semplice: in classe ho mille cose a cui pensare, fra compiti, interrogazioni,
chiacchiere e risate passo momenti più che sereni. A casa invece spesso regna la pace e
il silenzio, e tutto mi ricorda lei. Ho degli amici fantastici. Sono in buoni rapporti
praticamente con tutta la scuola, anche se quel gruppetto di sei o sette fra ragazzi e
ragazze conosciuti alle medie resta la miglior compagnia di sempre con cui passare il
tempo. Piangiamo, ridiamo, ci lamentiamo, scherziamo, tutto nel medesimo momento.
Sempre insieme, mai da soli. Eppure adesso sono da sola, non c’è nessuno con me da
ormai qualche settimana, o almeno credo. Ma basta con questi pensieri smielati da
tredicenne altrimenti sembrerà uno degli episodi di High School Musical. Incredibile:
riesco a correggermi da sola anche nei miei stessi pensieri. Da piccola quando facevo il
bagno nella vasca ero innamorata delle bolle di sapone che salivano e poi scoppiavano
senza lasciare traccia, Max ha sempre messo troppo sapone nella mia vasca. Credo che
sperasse di vedermi scomparire tra la schiuma. Quanto amore…anche da piccoli ci
auguravamo la morte a vicenda. Ora che ho sedici anni quest’immagine della bolle mi è
rimasta in testa. Ogni cosa che vedo la ricollego a questo concetto: sia cose concrete che
concetti compaiono e poi se ne vanno senza lasciare traccia, anche i pensieri. Credo che
il troppo studio mi stia uccidendo. Contento, Max? Ripensavo alle giornate trascorse come
le bolle, o meglio nelle bolle. Ma in questo caso è diverso, perché queste lasciano un
segno che non se ne andrà tanto facilmente: i ricordi. I ricordi sono la cosa più bella che
abbiamo. Anche se a volte sono solo dolore, persone o cose non più accanto a noi
rimangono vive solo nei ricordi. Mi metto anche a fare la filosofa adesso? Grandioso…
Quel giorno passato tutti insieme alla villa al mare…chi se lo scorda più? Fede aveva fatto
i salti mortali per convincere la zia a prestarci quella casa. Quanto la adoro… è immensa,
ha un giardino gigantesco con tanto di piscina, e la zia ha un ottimo gusto in fatto di
interni. Le stanze sembrano quelle di una reggia. –Massimo cinque persone a testa!!-
aveva detto zio, o meglio, l’aveva urlato. Fede i suoi amici, Max i suoi e io i miei. Saremo
state una ventina di persone che non hanno fatto altro ce correre su e giù per il giardino
della villa. Fra musica, tuffi in piscina, scherzi, cibo, risate e tanta spensieratezza, quella è
stata una delle migliori giornate della mia vita. Fantastico ricordare gli amici di Max che ci
provavano ininterrottamente con me e la mia amica e Fede che li guardava come se
volesse spaccargli la faccia uno ad uno. È bello avere una persona che ti difende. Mi
sento in colpa. Il fatto che io trascorra delle giornate serene non vuol dire che ti abbia
dimenticato…hai capito!? Penso a te ogni giorno, e non c’è cosa che mi circondi che non
mi faccia pensare a te, al tuo sorriso, alla tua pazienza, alla tua bontà, all’amore che mi
hai donato. Sono passati dieci anni. E io sogno quella maledetta sera ogni volta che
appoggio la testa sul cuscino. Mi hanno proposto psicologi, per superare… non si supera
una cosa del genere, io non voglio superare. Dopo un paio di sedute ho deciso che per
me era finita lì. Non sono pazza. E sono certa che tu non avresti mai voluto che io restassi
lì tre volte a settimana sentendo parlare questo tizio (non mi viene neanche da chiamarlo
psicologo) che mi tratta come se fossi la persona più messa male dell’universo, che mi
parla con compassione e comprensione. Non me ne faccio niente della sua comprensione.
E so anche che tu non vuoi che io pensi che è colpa mia. Invece è così. È colpa mia se tu
non ci se più. Dico a tutti che non ricordo invece io ho impressa in mente l’immagine di
ogni singolo istante di quelle due ore che sono state le più lunghe della mia vita. Pioveva,
pioveva forte, stavamo tornando a casa, io e te. Ridevamo, mi avevi promesso un pezzo
di cioccolata appena saremmo tornate a casa, dopo che io te lo avevo incessantemente
chiesto. Una macchina davanti a noi sbandando è finita sulla nostra corsia. Tu per evitarla
sei finita fuori strada. Buio. La voce di pompieri e paramedici ha rotto il silenzio.
Quell’uomo, credo fosse un paramedico, tu eri ancora viva, avrebbe dovuto salvare te
non me. Avrebbe dovuto lascarmi lì. Ha preferito salvare quella bimba di sei anni che
adesso vive con una grossa cicatrice sul ginocchio sinistro e tanti sensi di colpa. Non ci
sono mai più tornata su quella curva maledetta. O forse sì, non ricordo bene. Mamma mi
manchi…mamma perdonami…

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