PASSAGE OF TIME di A.Schettini
A dodici anni era seduta sull'imponente gradinata d'ingresso del castello. Il ragazzo dai capelli biondi l'aveva insultata davanti a tutta la loro Casata, ed era scappata dai sotterranei nella speranza che le lacrime che le rigavano il volto si confondessero con la fredda e insistente pioggia autunnale, e che i suoi singhiozzi fossero portati via dal vento freddo che scuoteva le fronde degli alberi della foresta. Il cielo era un denso mantello grigio: quando si rese conto che era lo stesso colore dei suoi occhi desiderò poterlo squarciare.
La pioggia picchiò imperterrita sulle campagne per sette giorni.
A tredici anni venne a sapere il significato dell'insulto che il ragazzo biondo le aveva rivolto in quella che le sembrava un'altra vita. Passò tutto il pomeriggio in biblioteca con la testa china su tomi dalle pagine ingiallite e sottili come le foglie di un salice. Quando trovò quello che stava cercando, l'anello col blasone che portava all'anulare sinistro diventò un po' più pesante, e le sembro che la pelle e il sangue sotto di esso bruciassero e urlassero tutto il loro rifiuto. Quella sera, a cena, mangiò seduta all'angolo più remoto della tavolata; non si stupì quando nessuno si sedette vicino a lei. Contò 67 crepe del tavolo di noce, nel tentativo di ignorare due occhi che le urlavano tutto il loro rifiuto con soddisfatto trionfo.
Un vento gelido soffiò per più di un mese.
Quando aveva quindici anni, una lettera venne lasciata all'ingresso del Maniero della sua famiglia. Dentro, qualche foglio e una spilla argentata. Era corsa dai suoi genitori entusiasta, orgogliosa di essere riuscita a portare avanti una delle tante tradizioni che i ritratti dei suoi avi si vantavano di possedere da decenni. Suo padre le aveva scompigliato affettuosamente i capelli, negli occhi tutto l'amore che spesso si dimenticava di dimostrarle. Sua madre aveva voluto vedere i fogli che accompagnavano la spilla. Li aveva letti attentamente, poi le aveva strappato il distintivo dalle mani e l'aveva gettato nell'ampio camino di marmo che da secoli riscaldava lo sfarzoso salone principale. Le fiamme verdi avevano inghiottito l'argento, e il serpente sulla mensola aveva ghignato guardandola con disprezzo da dietro le orbite vuote.
Quando si rese conto di dove aveva già visto quell'espressione deformata, era scattata in avanti ed era rimasta a guardare con soddisfazione mentre il serpente annegava nel verde.
Quella sera cenò da sola nella penombra della sala da pranzo, con l’unica compagnia del rumore della pioggia che si infrangeva contro le alte vetrate.
Ritornata al castello non si stupì di vedere appuntato sulla cravatta del ragazzo biondo lo stesso luccichio argentato che bruciava ancora nelle braci spente del camino.
A sedici anni fu l'unica in tutta la scuola in grado di completare l'Evocazione di Settimo Livello, e venne lodata dal suo Mentore, mentre i compagni applaudivano educatamente. Il ragazzo biondo si era limitato a fissare il Cerchio blu che risplendeva al centro dell'aula con sguardo assente, come se non lo vedesse nemmeno. Provò una profonda sensazione di trionfo, mista a un moto di fastidio. Quando uscì si premurò di urtargli violentemente la spalla, facendolo sbattere contro lo stipite della porta. Si aspettava che la squadrasse con malcelato fastidio, come di solito la gente fa quando viene a contatto con un tipo di realtà con la quale non vuole avere niente a che fare. Lui non la guardò nemmeno. Uscì dall’aula a testa alta, con il mantello che gli ondeggiava sulle spalle.
Qualche ora dopo scoprì di come il ragazzo biondo ormai non fosse più un ragazzo, ma un uomo, e delle circostanze misteriose intorno alla prematura scomparsa del padre.
Passato un mese non aveva più nemmeno una madre.
Un mese e un giorno più tardi lo trovò seduto sulla gradinata d’ingresso del castello, la pioggia e qualcos’altro a rigargli le guance. L’aria odorava di terra bagnata e dolore, e lui non la cacciò quando gli si sedette accanto per condividerlo.
A diciassette anni provò ad insegnarle a suonare il piano. Si rivelò una pessima musicista ma una buona ascoltatrice, e passavano le ore con lui che suonava assorto e lei che leggeva con la schiena appoggiata a una gamba dell’elegante pianoforte a coda, circondati dalle melodie e dai deboli raggi di sole che alleggiavano nell’aria rivelando gli impalpabili granelli di polvere che svolazzavano sullo spesso tappeto ricamato.
Il giorno del loro diploma cercò il luccichio dei suoi capelli in mezzo a un mare di teste, per salutarlo e augurargli buona fortuna. Solo per quello, si diceva, mentre la consapevolezza che se n’era già andato le si posava come una pietra all’altezza dello stomaco.
A vent’anni aveva partecipato a sei Cacce e quindici Ispezioni, e per ricompensarla dei servigi perfettamente resi, il Consiglio le aveva regalato una porta con il suo nome sopra più la carica di Comandante. Aveva in oltre ricevuto diverse onoreficenze per aver scoperto la cura a due degli otto Morbi, uno dei quali aveva spento per sempre sua madre. Lo spadone che le era valso il rispetto delle Legioni era sempre appeso al suo fianco, come un monito a ricordare quanti vite vuote aveva spezzato. Presto il suo Ritratto avrebbe fatto la sua comparsa di fianco a quello del giovane ragazzo dai capelli neri, poco dopo quello del vecchio dalla lunga barba e della vecchia che mutava forma. Anche lei avrebbe avuto il suo piccolo spazio nella Storia.
Non aveva smesso, con il passare del tempo, di cercare di contattare il ragazzo biondo, prima con lunghe missive, dopo attraverso il vecchio Mentore dal naso adunco che entrambi avevano caro.
Non aveva ricevuto nessuna risposta.
A ventitré anni si ritrovò a passeggiare ancora una volta fra le antiche mura del castello che li aveva visti crescere, inseguita dal sussurro assordante dei ricordi, gli stivali che picchiavano contro le pietre levigate dalle generazioni che le avevano calpestate. Cercò un po’ di pace sulle rive del lago dalle acque nere e profonde, la sua faccia un indistinto ovale bianco sfigurato dalla pioggia che aveva lentamente cominciato a cadere.
Lui però questa volta non era seduto sui gradini.
A ventiquattro anni lo rivide per la prima volta dai tempi della scuola attraverso la vetrina di una caffetteria, ed ora era davvero un uomo, con il viso più stanco e gli occhi scuriti dagli anni, ma i capelli gli cadevano ancora sull’ampia fronte come sottili spighe di grano. Parlarono, parlarono e parlarono, all’inizio tra di loro l’ingombrante presenza degli anni trascorsi, poi le insicurezze del presente e infine le speranze del futuro. Sorridevano entrambi e richiamavano alla memoria il suono di un pianoforte, l’odore di terra bagnata e le facce dei loro vecchi compagni. Quando le chiese di incontrarsi di nuovo il giorno successivo i suoi occhi brillavano come il timido raggio di sole che faceva capolino dalle nubi.
A trentasette anni guardava dall’alto delle nuvole i suoi due ragazzi biondi fare visita al Ritratto raffigurane una giovane donna dai lunghi capelli e dai grandi occhi azzurri, con una spada appesa al fianco, proprio accanto al ragazzo dai capelli neri.
Sotto, le date 1950-1977.
Quel giorno il sole splendeva alto nel cielo.
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